guest post di Lorenzo Buzzetti
La mattina di alcune domeniche fa, in attesa di un concerto alla Scala ho cercato un caffè. I sei locali nelle immediate vicinanze erano chiusi.
Riconosco ai proprietari degli esercizi il diritto di decidere la propria politica
commerciale ma aggiungo che un paesello di provincia può andare in vacanza la
domenica, la città dell’Expo no.
Ho proseguito la ricerca del caffè nella Galleria Vittorio
Emanuele. L’impiegata di un primo locale mi ha risposto indispettita, con la solita,
italica, superflua e indisponente mimica teatrale che sarei potuto solo sedermi al tavolo,
non è possibile prendere un caffè al banco. L’impiegata di un secondo locale mi ha
invitato gentilmente ad entrare per un caffè in piedi. Peccato che poco dopo, alle
rimostranze del collega alla cassa che non aveva il resto di un 50 euro porto da un
cliente per pagare, abbia risposto a gran voce davanti a me e ad altri clienti: «Che cXzXo
vuoi da me, questo mi ha dato!».
Un imprenditore che seleziona personale per il comparto alberghiero in tutta Europa mi disse circa venti anni fa:
«I ragazzi italiani sono la risorsa peggiore per me; si portano dietro costi nascosti, ad esempio devo insegnare loro anche l’abc della buona educazione ovvero ciò che tedeschi, francesi e inglesi
(in generale) imparano in famiglia, consolidano a scuola e praticano nella vita
quotidiana».
Mi sembra che poco sia cambiato. Immagino che un buon numero di esercenti metta ancora oggi tra gli ingredienti di un buon prodotto, in questo caso il caffè, soltanto materia prima (il chicco) e luogo (la Galleria). Peccato che da qualche decennio il mercato si è evoluto e consideri il servizio condizione necessaria per produrre qualità. C'è forse un equivoco da spiegare: il servizio che sta attorno ad una tazza di caffè non è un insieme di arcaiche formule barocche in stile corte Luigi XIV; si tratta invece di un semplice, sobrio rapporto umano che, almeno in Europa, comincia sottovoce con un "Buon giorno Signore cosa posso fare per Lei"?
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